È solo da qualche mese che mi sono trasferita dai miei zii a Firenze, per frequentare un corso all’Università Internazionale dell’Arte, che ha sede in via Delle Forbici 24.
Adoro l’arte in ogni sua manifestazione, così cerco di far tesoro di ogni esperienza.
Sono Savanna Stenford, provengo da Hopaville, Atlanta, negli Stati Uniti, ho 24 anni, sono alta 1,82, capelli biondi lisci, occhi verdi, corporatura normale.
Anche se, da quando sono in Italia, ho decisamente preso qualche kg, che tutto sommato mi sta bene.
Ormai è arrivato dicembre e il periodo natalizio è vicino.
Infatti oggi è il 13, la fatidica ricorrenza di Santa Lucia, a cui tutte le feste da il via.
In casa Trebbiani fervono i fatidici preparativi.
Zia Marisa impartisce ordini a tutti, lo zio Giuseppe corre a destra e a manca per soddisfare le sue richieste e Carlo, come al solito si è volatilizzato.
Quando in casa c’era qualcosa da sbrigare, lui spariva per ore, rintanato chissà dove e a far cosa non si sa.
Io ero beatamente comoda sul sofà a studiare, quando la voce della zia, giunse alle mie orecchie.
«Savannaaa!»
«Si zia? Sto studiando!»
«Cara puoi venire a darci una mano?»
Anche se non mi andava proprio di alzarmi, appoggiai il libro sul tavolino e andai nell’ingresso.
«Eccomi zia… di cosa hai bisogno?»
«Prendi quella fila di palle luminose cara.»
E sgranandomi uno dei suoi strabilianti sorrisi mi indico dove erano posti gli oggetti.
Mi voltai e li presi, poi glieli passai.
In quel mentre, suonarono alla porta.
«Savanna cara vai ad aprire per cortesia.»
«Si zia… »
Non potevo certo pretendere che scendesse dalla scala e andasse lei.
Non appena spalancai la porta, mi trovai davanti degli agenti di polizia.
Sgranai gli occhi e…
«Sì? Avete bisogno?»
«Scusi signorina, cerchiamo i padroni di casa, i signori Trebbiani.»
Non ebbi neppure il tempo di rispondere che dall’interno della casa proruppe la voce della zia.
«Chi è cara?»
Con voce tremante risposi «E’ la polizia zia, cerca i padroni di casa.»
Sentii un mezzo frastuono e la zia che si scapicollava per arrivare in fretta.
«Salve signori poso aiutarvi in qualche modo?»
«Certo signora Trebbiani, è in casa suo figlio?»
Stavo per rispondere io ma la zia mi precedette.
«Si certo! È nella sua stanza a leggere.»
«Può farci entrare per cortesia?»
«Ma si certo accomodatevi. Di qua prego.»
Poi rivolgendosi a me «Savanna vai a chiamare lo zio per cortesia.»
Senza dire una parola mi diressi in cantina, dove lo zio stava cercando altre scatole di addobbi.
Dopo avergli detto tutto, salimmo assieme dirigendoci in salotto, dove la zia intratteneva gli agenti.
Mi sedetti al mio posto e attesi.
«Posso sapere chi è lei signorina?»
L’agente si rivolse a me e io non ebbi neppure il tempo di aprire bocca, che la zia prese la parola.
«E’ mia nipote agente!»
«Va bene, grazie signora! Ma preferirei rispondesse la ragazza.»
La zia si zittì di colpo ed io cominciai ad agitarmi.
Poi ad un tratto sentimmo un rumore provenire dal piano di sopra.
Gli agenti si precipitarono di corsa, seguiti dagli zii.
Io preferii non intralciare e attesi all’ingresso.
Dopo qualche istante, gli agenti scesero con Carlo in manette, ancora in pigiama e alquanto frastornato.
Gli zii erano strani, all’apparenza preoccupati ma al tempo stesso distaccati e poco ansiosi.
Io e mio cugino certo non andavamo molto d’accordo, ma preoccuparmi era il minimo.
«Dove lo portate? Non ha fatto nulla!»
Carlo mi guardò stupito, ma non disse una parola.
Dopo che gli agenti uscirono, gli zii tornarono ai loro addobbi come nulla fosse.
Non ci potevo credere, non ci vidi più dalla rabbia.
«Ma santo dio! La polizia ha appena portato via vostro figlio e a voi non ve ne frega nulla! Che squallore! »
Mia zia non disse nulla, al contrario lo zio.
«Vedi cara non è che non siamo preoccupati per Carlo, ma siamo abituati che la polizia per ogni minima cosa venga da lui. Ormai lo hanno preso di mira e per nulla lo prendono, lo interrogano e dopo aver appurato che lui non centra lo rispediscono a casa.»
«E a voi non è mai venuto in mente di parlare con vostro figlio invece di ordinargli e basta! E poi… spedirlo! Vostro figlio non è un pacco.»
«Taci tu! Non puoi sapere com’è stato difficile con lui. Tu non conosci le cose e non puoi permetterti di giudicare.» sbottò di colpo la zia.
«Marisa calmati!» disse lo zio.
«Certo io non conosco nulla della vostra vita ne della sua, ma un figlio rimane sempre un figlio, in tutto e per tutto.»
Poi in preda alla rabbia salii al piano di sopra, senza più sentire altro.
Stavo per entrare in camera mia, quando vidi che la porta della stanza di Carlo era rimasta aperta.
La mia curiosità era grande, ma allo stesso tempo non volevo violare la sua privacy.
Decisi allora che avrei solo accostato la porta.
(Mi avvicinai e feci per prendere la maniglia senza sbirciare all’interno, ma la porta era completamente spalancata.
Così dovetti purtroppo voltarmi e ciò che vidi fu una cosa stranissima.)
La stanza di Carlo era divisa categoricamente in due parti, una era perfettamente e meticolosamente in ordine, nell’altra invece regnava il caos più assoluto.
Sembrava quasi come se in quella stanza, vivessero due persone.
Da quando ero arrivata da loro, avevo socializzato poco con lui, duranti i pasti vigeva il silenzio e non appena si finiva, spariva per ore e ore.
Avevo provato un paio di volte ed avvicinarmi ma lui era sempre rimasto sulle sue.
Come riusciva a vivere in quella strana stanza?
Alzai le sopracciglia, alquanto perplessa, poi mi voltai ed uscii.
Mi rifugiai nella mia stanza e attesi.
Quando sentii uno sbatter di porta, mi catapultai fuori.
Da accostata che l’avevo lasciata, la sua porta era chiusa.
Evidentemente era rientrato.
Mi avvicinai piano e bussai.
Toc toc!
Dall’interno proruppe una voce «Andatevene! Lasciatemi stare! »
«Scusami Carlo non voglio disturbarti, gradirei sapere solo come stai?»
Senza che me ne accorgessi, la porta si aprì di colpo e lui mi stava guardando.
«Perché? Cosa ti importa di me?»
Notai subito quella piega al lato della bocca, segno di incredulità.
«Sei mio cugino e ci tengo a te.»
Lo vidi totalmente esterrefatto dalle mie parole.
Si scostò e mi invitò ad entrare.
Deglutii a fatica, poi facendomi coraggio entrai.
C’era penombra nella stanza, ma potevo chiaramente capire che lui era più alto di me, di circa 12/13 cm, aveva gli occhi neri, come anche i lunghi e scompigliati capelli.
A volte portava occhiali da intellettuale e, aveva un fisico alquanto asciutto.
Tutto sommato non era affatto un brutto ragazzo.
Si sedette nella parte della stanza in ordine e mi chiese di accomodarmi.
Io lo feci e mi sedetti sulla sedia di fronte a lui.
«Perché ti preoccupi per me? Nessuno lo fa mai. Perché dovresti essere l’eccezione alla regola?»
«Ti ripeto che sei mio cugino e ci tengo a te, non so come si comportino gli altri con te, io agisco secondo la mia coscienza.»
Lui mi squadrava per studiarmi meglio, poi si poggiò con i gomiti sulle ginocchia e, inclinando la testa di lato riprese a parlare «Allora Savanna che dice la tua coscienza, di questo tuo cugino un po’ strano, che ama la solitudine e che viene braccato dalla polizia per ogni minima cosa.»
«Essere chiusi o amare la solitudine non vuol dire essere strani, la gente non capisce è vero, quindi ti tratta da diverso, ma se solo provasse a capirti…. Avresti tanti amici. E per la polizia, francamente non capisco affatto tutto questo accanimento nei tuoi confronti, non credo tu abbia rubato o ucciso nessuno.»
Lo vidi fare un sorriso beffardo, «Già, non ho rubato ne… ucciso! Ma non sono mai andato a genio alla gente, ne alla polizia. Quindi sin da quando ho avuto discussioni a scuola mi hanno preso di mira e per un non nulla mi controllano.»
«Beh, è capitato anche a me di avere discussioni anche accese con dei compagni, ma la polizia di certo non mi ha presa di mira. C’è qualcosa in te che forse li incuriosisce o non capiscono, ma anche questo non è di certo normale.»
Per la prima volta lui mi guardò dritto negli occhi ed io notai che gli brillavano di una luce strana, indecifrabile.
«Hanno detto che tutti quelli di casa devono andare a deporre. Anche tu.» disse.
«Io? Ma cosa centro io? Comunque ok dammi l’indirizzo. Poi ci andrò.»
Lui prese carta e penna da un cassetto e me li porse.
Il suo tocco era gelido, mi diede quasi la scossa.
«Grazie Carlo! Ora scusa ma devo andare. Quando vuoi sai dove trovarmi.»
Mi alzai, gli sorrisi ed uscii.
Tornai in camera mia, mi preparai ed andai al commissariato.
Quando arrivai alla centrale, fui subito ricevuta dall’agente Marco Grignaschi, doveva avere qualche anno più di me, alto circa 1,90, moro e occhi scuri. Corporatura atletica e ben scolpita, che si intravedeva sotto l’uniforme.
Mi fece accomodare alla sua scrivania e cominciò con le domande.
«Bene signorina, lei è la nipote dei signori Trebbiani, mi dia le sue generalità prego.»
Lo guardai incredula, stava li all’altro capo del tavolo e con aria di superiorità, cercava di mettermi a disagio. Non avevo nulla da nascondere quindi ero intenzionata a terminare al più presto la conversazione.
«Sono Savanna Stenford, ho 24 anni, sono di Hopaville – Atlanta, negli Stati Uniti. È da fine agosto che abito dai miei zii per frequentare un corso all’Università Internazionale Dell’Arte, che si trova in via Delle Forbici qui a Firenze. Non ho mai rubato ne ucciso nessuno.»
Lo vidi sorridere divertito.
Quell’uomo mi dava sui nervi.
«Bene signorina Stenford. Che rapporti ha con suo cugino?»
E questo cosa centrava ora?
«Non abbiamo un rapporto molto stretto e non comunichiamo molto, ma ci vogliamo bene.»
«Dove si trovava stanotte tra le 2,43 e le 4,20?»
Ma cosa pensava che andassi a zonzo quando dovevo studiare?
«Ero nella mia stanza, dormivo. Avevo smesso di studiare alle 2,00.»
«Quindi presumo che se ci fosse stato movimento in casa, lo avrebbe udito.»
«Si certo. »
Ma che domande faceva?
«E ne ha sentito?»
«No nessun movimento o rumore sospetto.»
«Bene grazie ora aspetti che le faccio firmare la deposizione.»
Lo guardai stralunata e alzando un sopracciglio dissi incredula «Scusi… tutto qui? Sembrava che ci fosse stato un massacro da come avete prelevato mio cugino e poi le domande rivoltami sono queste?»
Lui rifece quel sorriso divertito e disse «Signorina lei non è indagata, ma solo una sospettata, quindi possiamo ritenerci soddisfatti. Un attimo e arrivo.»
Uscì dalla porta e io attesi sbigottita.
Dopo poco tornò e mi fece firmare la deposizione.
Mi alzai e mi diressi alla porta.
«Signorina Stenford, faccia attenzione a suo cugino, non è ciò che appare. Se avesse bisogno, mi contatti a questo numero.» concluse.
Mi voltai e lo squadrai torva, presi il foglietto che mi porgeva e uscii.
Tornai a casa dove stranamente regnava troppo silenzio.
La televisione era spenta e lo zio non era in salotto a leggere.
Anche la zia era sparita.
Accesi le luci ma mi accorsi che non c’era corrente.
Cominciai ad agitarmi quando sentii delle urla provenire dal piano di sopra.
Cautamente cercai di salire senza farmi sentire.
Deglutivo a fatica e il cuore accelerava.
Arrivai in cima alle scale e quasi scivolai su qualcosa di appiccicoso. Non potevo vedere bene ma sembrava qualcosa di viscido e rossastro.
Presi ad agitarmi ancora di più.
Ecco che nel silenzio proruppe un altro grido.
Sembrava che stessero sgozzando qualcuno.
Non so perché ma presi il cellulare dalla tasca e composi il numero del poliziotto, ma poi lo rimisi in tasca, procedetti ancora cercando di non cadere ed ecco un altro grido.
Capii che provenivano dalla stanza di Carlo.
Mi feci forza e parlai «Carlo? Sono Savanna. Tutto bene? Se vuoi chiamo un medico se stai male.»
Sentii un mugolare e poi un tonfo.
Poi la porta si spalancò.
Lui mi sovrastava e non mi faceva vedere all’interno.
«Carlo! Stai bene? Ho sentito dei gemiti e pensavo stessi male.»
«No tranquilla, sto bene è che sto sistemando la camera e ho sbattuto contro un mobile. Vorresti darmi una mano?»
Gli sorrisi contenta della sua richiesta «Si certo! Con piacere.»
Mi fece accomodare e non appena dentro chiuse la porta con un giro di chiave e se la mise in tasca.
Strano comportamento per uno che voleva mettere a posto, ma non dissi nulla.
Anche la sua stanza era al buio.
«Ma come fai a mettere a posto se manca la luce?» chiesi.
Lui rise beffardo «Non qui, la mia stanza ha un’altra rete d’entrata.»
Lo guardai di sbieco e attesi.
Lui premette sul pulsante e la luce proruppe devastante.
Mi fece vacillare e strizzare gli occhi.
Presi un respiro a pieni polmoni e solo allora sentii uno strano odore ferroso, solleticarmi le narici.
Pian piano riaprii gli occhi, Carlo nel frattempo si era spostato.
Mi voltai e ciò che vidi fu raccapricciante.
Lo zio era a terra coperto di sangue e con il cranio completamente fracassato e il cervello che gli usciva e che sicuramente era stato calpestato.
Un conato di vomito mi salì in gola e caddi sulle mie ginocchia.
Dietro di lui sentii un mugolio.
Alzai la testa e vidi la zia con le pupille dilatate che cercava di parlare.
Legata a delle corde che pendevano dal soffitto.
Presi coraggio e parlai «Carlo ma cos’è successo? Perché? Non sei un cattivo ragazzo, io lo so. Perché devi fare tutto questo? »
«Tu non capisci, loro sono i colpevoli, loro mi hanno portato a questo, non mi hanno mai considerato come un figlio ma solo come un peso. Un abominio. Devi sapere che lui non è mio padre, non quello biologico. E che mia madre, è stata violentata. Da quell’abuso sono nato io, il frutto della violenza. Sono sempre stato trattato come un servo e mai come un figlio. Certo mi hanno mantenuto ma mai una manifestazione d’affetto. Nulla! Solo emarginazione e distacco. Ora basta devono pagare. Non ce la faccio più!»
«Capisco che è stata dura per te e loro hanno tutte le colpe, lo so, ma non passare dalla parte del torto ti prego! Fatti aiutare Carlo!»
«Da chi dagli strizza cervelli? Da quelli che mi hanno torturato tutta la vita? Pensando che fossi un decerebrato ? Neppure quando ho intrappreso gli studi di farmacia e anatomia, portando voti eccellenti, per loro non andava bene. Non ero all’altezza. Rimanevo l’orrore. Lei non voleva mettermi al mondo e sarebbe stato meglio non nascere. Fu lui a convincerla, così portò a termine la gravidanza ma poi anche lui non mi voleva.»
Vidi il suo sguardo perso nel vuoto e cercai di alzarmi.
«Non muoverti! O sarò costretto a farti del male!»
Mi guardava torvo e con strane scintille negli occhi.
Prese da un cassetto posto nella parte in disordine, delle manette e si avvicinò a me.
Mi prese per un braccio e mi trascinò nella parte nera, ammanettandomi al tavolo.
«Carlo perché lo fai? » dissi in lacrime.
Lui mi guardò negli occhi e mi disse «Perché sono folle e la mia malattia non mi da scampo, non ho vie d’uscita così avrò almeno la mia vendetta.»
Era malato ma non sembrava affatto. Il suo fisico non era per nulla provato. Allora di cosa poteva soffrire?
«Posso sapere cos’hai? Di cosa soffri?»
Lui si scostò e sorrise beffardo «Sei curiosa cuginetta. Soffro di schizofrenia e di attacchi violenti. Questa è la diagnosi degli strizza cervelli. Ma so che in fondo hanno ragione. Ma non è solo colpa mia. Io ho cercato in tutte i modi di essere alla loro altezza. Ma non avrei mai potuto. Neppure se fossi stato uno sceicco e li avessi ricoperti d’oro o un imprenditore e uomo di successo. Non avevo speranze per loro.»
Schizofrenia! Sapevo che era una malattia degenerativa in cui la persona che ne veniva colpita, si vedeva come in uno specchio avvolto in una nube oscura che pian piano distrugge la sua personalità, la sua memoria, la capacità di concentrazione, la difficoltà sempre più profonda di esprimersi, continui accumuli di insuccessi e frustrazioni continue. Il vedere pericoli ovunque e continue ricerche di risposte. Continui appelli di aiuto che però non vengono mai accolti. In più, gravavano gli attacchi di violenza. Certo per gli psicologi era solo l’ennesimo caso da studiare. E per gli zii era solo un intruso che era nato per errore.
Non avrei mai potuto immaginare come si sentisse, ma forse c’era ancora speranza di recupero.
«Carlo io ti voglio bene, ti prego io non ti abbandonerò, ma ti prego fatti aiutare!»
Mi guardò come se avessi detto un’eresia, poi rise sonoramente «Ahahahahaahah! Nessuno mi vuole bene! Nemmeno tu cuginetta! Non pensare che perché abbiamo parlato dieci minuti, io sia diventato tuo amico o viceversa. I sentimenti e l’affetto sono altro. E nemmeno tu ti sei comportata bene con me. Da quando sei arrivata, non mi hai mai avvicinato, anzi mi hai schivato come avessi la lebbra.»
«Carlo io non ti ho schivato, in più di un’occasione ho cercato di avvicinarmi a te ma tu, ti rinchiudevi come un riccio e per non disturbarti ti lasciavo in pace. Ho sbagliato lo so! Ma non voglio più farlo. IO TI VOGLIO BENE!»
Glielo urlai con quanto fiato avevo in corpo e lui per un attimo sembrò vacillare.
Ma poi «Ora basta! Questa storia deve finire ora! »
Come un pazzo lo vidi prendere una sega che prima non avevo notato, si avvicinò alla zia e gli tagliò di netto la mano sinistra.
«NOO!»
Urlai come un’ossessa ma lui in men che non si dica, aveva già compiuto quello sconsiderato gesto. Fiotti di sangue schizzarono ovunque e qualche spruzzo mi finì sulla faccia e sulla maglia. La zia urlava e gemeva di dolore e si dimenava cercando di liberarsi.
Calde lacrime scesero dai miei occhi e rigarono il mio volto. Lui si voltò verso di me, tenendo tra le mani, la mano della zia che grondava sangue e, la sega ancora sporca e tinta di rosso.
«Vuoi uccidere anche me ora? So troppo e non potrei tenere il tuo segreto, è questo quello che pensi vero?»
Vidi i suoi occhi, che da folli e vendicativi, pian piano si schiarivano e diventavano quasi umani.
«Non potrei mai farti del male Savanna.»
Appoggiò le due cose sulla scrivania in disordine e poi mi venne vicino, mi mise le mani piene di sangue sulle guance e si accucciò.
«Non potrei piccola mia, perché io ti amo! »
Nel mio stupore più totale, lui mi baciò ed io stupidamente lo lasciai fare.
Poi si staccò e si alzò di scatto.
Io rimasi completamente inebetita e lo guardai muoversi velocissimo per la stanza.
«Noi fuggiremo assieme, tu verrai con me e ci scorderemo di tutto. Sono sicuro che con il tuo aiuto guarirò e nessuno potrà separarci.»
Stavo cercando di ricordare il volto dei miei genitori, che in quel momento non ricordavo affatto. È vero che in certe circostanze la paura fa un brutto effetto. Ero sempre stata una ragazza coraggiosa pronta ad affrontare tutto ma questo era troppo. Mio cugino aveva ucciso lo zio e torturato la zia ed ora pretendeva che io lo seguissi. Se non l’avessi fatto, sarei sicuramente morta. La mia mente si rifiutava di pensare. E non riuscivo ad essere abbastanza lucida.
Ad un tratto dal corridoio si sentì un rumore assordante.
La porta si spalancò e due agenti proruppero nella stanza; non appena si resero conto dell’accaduto, mentre Carlo si voltava per vedere cosa fosse quel rumore, una raffica di spari partì dai loro fucili.
Io tremai di paura e chiusi gli occhi, portandomi le mani alle orecchie.
Le lacrime scesero a fiumi e i singhiozzi si fecero più evidenti.
Poi sobbalzai quando sentii che delle mani mi scuotevano.
Aprii gli occhi e vidi il volto dell’agente Grignaschi.
«Ora ti libero e poi usciamo di qui.»
Mi prese e mi abbracciò, accompagnandomi giù nell’atrio deve venni assistita.
Ad un tratto mi sentii mancare e persi i sensi.
----- oo-----
Era passato del tempo da quel 13 dicembre, e io non avevo più rimesso piede nella casa dell’orrore, neppure per riprendere i miei oggetti personali, ma ora mi ero trasferita al campus e non potevo certo pretendere che l’agente Grignaschi mi mantenesse. Si lui era il mio ragazzo. Mi era stato molto vicino e ora stavamo insieme. Mi feci coraggio, entrai dall’ingresso e salii le scale. Procedetti per il corridoio e mi diressi alla mia camera. La luce che proveniva dalle finestre illuminate a giorno, era sufficiente per vedere. Prima di entrare però mi voltai verso la sua stanza. Cominciai a tremare, qualcosa mi attirava, era come se una voce mi chiamasse. Procedetti lenta verso di essa e poi l’aprii decisa. Al suo interno c’erano ancora i segni delle indagini tracciate per terra e quell’odore acre di sangue che impregnava la stanza. Un conato di vomito mi assalì e mi voltai per tornare alla mia stanza, ma all’improvviso.
«Ricordati amore non devono trovarli!»
Oh dio… come mai non mi ero mai accorta che Carlo mi aveva urlato quelle parole, prima che uscissi dalla stanza. Le avevo sicuramente rimosse. Ma cosa non avrebbe dovuto trovare la polizia? Di cosa parlava?
Feci retromarcia ed entrai incurante della puzza. Mi guardai intorno ma non vidi nulla. Sicuramente gli agenti avevano rovistato da cima a fondo quel posto, sequestrando ogni cosa.
Notai che nella parte in ordine, c’era la scrivania, che non era stata mossa di un millimetro, rispetto all’altra parte; perché? Forse gli agenti davano per scontato che uno psicopatico nascondesse le sue cose solo nel caos.
Ma Carlo appariva a volte molto più lucido di tanti.
La spostai leggermente e notai che proprio dietro nel muro c’era una leggera segnatura a matita.
La toccai con le dita e quella si aprì come fosse una sorte di piccola porta.
Era una parete doppia e al suo interno Carlo aveva messo qualcosa.
Ne estrassi un pacchetto avvolto da un maglione.
Richiusi la porticina e rimisi contro la scrivania.
Uscii dalla stanza e chiusi la porta.
Andai nella mia stanza e dopo aver messo le mie cose dentro la valigia, vi riposi anche il curioso fagotto.
Stavo chiudendo le cinghie quando… «Savanna tutto ok?»
Quella voce improvvisa mi fece sobbalzare e mi voltai.
«Marco, Sei tu. Si scusa ho finito, ora scendo.»
Lui mi attese e uscimmo in fretta da quella casa.
Mi accompagno all’alloggio del campus e poi mi salutò, rammentandomi il nostro appuntamento della serata.
Ci baciammo e io, quasi corsi impaziente dentro gli alloggi, sino alla mia stanza.
Gettai la valigia sul letto e l’aprii.
Presi con mani tremanti l’involucro.
Vi trovai 21 tacquini, uno per anno.
Erano i diari di Carlo, li aveva scritti dall’età di 5 anni e ogni anno ne iniziava uno nuovo.
Quei diari contenevano la sua storia, la sua sofferenza, la sua angoscia.
Li avrei custoditi come un immenso tesoro, erano “I Diari di un Assassino”.
FINE
<Geraldina Batler>